Storia della carta
La moderna carta fatta di cellulosa ha una storia antica di quasi duemila anni. La sua scoperta risale infatti al I secolo d.c. in Cina quando, casualmente si pensò di utilizzare il sottile strato di fibre che si formava sulla superficie dell’acqua con i residui dei tessuti sbattuti durante il lavaggio dei panni. continua
Quello strato, essiccato e levigato, divenne così un leggero supporto per la scrittura, molto simile al foglio di carta che usiamo oggi. La carta si diffuse prima in Corea e poi in Giappone, per estendersi in seguito a tutto il Medio Oriente. Gli Arabi ebbero la capacità di introdurla in Spagna e da qui partì la diffusione per tutta l’Europa. Le carte orientali erano prodotte con vai tipi di fibra vegetale, usando bozzima (liquido colloso nei quali vengono immersi i filati prima della tessitura, per renderli più resistenti, lisci e flessibili) di origine vegetale, e sono incredibilmente stabili se tenute in ambiente adatto. Le carte europee prima del 1800 circa erano fatte con fibre vegetali riciclate (stracci di cotone e di lino). Anche molte di queste carte sono notevolmente stabili. Il vero grande lancio della carta avvenne solo con l’invenzione della stampa, nel Cinquecento, grazie al tedesco Gutemberg. La sua richiesta divenne così massiccia che i sistemi di fabbricazione, rimasti invariati per secoli, risultarono inadeguati, finché, l’invenzione, in epoca industriale, della macchina continua ne accelerò la diffusione in maniera esponenziale.
Storia delle stampe
Forse perché le stampe venivano prodotte in numero maggiore, esse sono state in genere più trascurate rispetto ad altre opere su carta. Le stampe all’inizio venivano colorate a mano. Nel XVII e XVIII secolo vennero fatti dei tentativi per trovare dei metodi per stampare a colori, ma erano complicati e continua
la produzione in serie di stampe a colori si diffuse soltanto nel XIX secolo. Vi è una gamma sconfinata di tecniche di produzione delle stampe che possono essere suddivise in tre categorie: la stampa rilievografica, ad acquaforte e planografica.
Stampa rilievografica: la stampa a rilievo era conosciuta dai cinesi molto prima del 1000 D.C. L’immagine viene prodotta sulla carta dalla superficie inchiostrata di una lastra. Le linee e le zone che devono essere stampate in nero sono lasciate in rilievo, mentre le zone non costituenti il disegno vengono asportate. Le silografie (o xilografie) usate nei libri europei dal XV secolo in avanti costituiscono la forma più comune di stampa rilievografica.
Stampa all’acquaforte: viene scoperta dagli incisori di metallo, che prendevano l’impronta su carta inumidita passando dell’inchiostro nelle decorazioni incise sulle armature. Nel XV secolo, l’incisione su lastra di rame si sviluppò con rapidità in tutta Europa. Era necessaria una grande abilità per incidere il disegno a rovescio sul metallo. Nel XVI secolo, l’incisione all’acquaforte rese la produzione di stampe molto più facile e veloce. Il disegno viene segnato con una punta da disegno sul rivestimento in cera applicato alla lastra e si basa sull’uso dell’acido per scavare il disegno nel metallo. La tecnica dell’acquaforte produsse immagini più libere e godette di gran favore presso gli artisti del XVIII e XIX secolo. Queste stampe erano caratterizzate da linee più rigide e formali adatte per riprodurre dipinti. Altri procedimenti includono la mezzatinta e le immagini ad effetto chiaroscurale dell’acquatinta.
Stampa planografica: usa una matrice piana e si basa sull’incompatibilità esistente tra il grasso e l’acqua. La litografia -l’originale procedimento planografico- venne introdotta al finire del XVIII secolo. Il disegno veniva tracciato con pastelli di sostanze grasse sulla superficie trattata di una lastra di calcare a grana sottile; l’inchiostro da stampa aderiva al disegno ma veniva respinto dal resto della lastra.
Tratto da “Manuale di restauro” di Hermione Sandwith e Sheila Stainton in collaborazione con il National Trust, ed. MEB
Le cause di deterioramento delle opere su carta.
L’acidità.
può essere introdotta nella carta sia da fonti primarie che da fonti secondarie. Le fonti primarie sono rappresentate da prodotti chimici, come l’allume, che viene aggiunto durante la manifattura della carta, oppure dal mezzo di lavoro: inchiostro tannato e pigmenti al piombo. Le fonti secondarie consistono nel passaggio nella carta di sottoprodotti acidogeni da supporti e montature di cattiva qualità, strati adesivi decomposti e il rivestimento posteriore usato nelle cornici quali il legno, il cartone di paglia e il truciolare oppure sostanze inquinanti come anidride solforosa.
Attacchi biologici.
Gli insetti che attaccano la carta si nutrono di solito delle impurità quali gli agenti di bozzima o i leganti dei pigmenti. Il pesciolino d’argento segue e mangia i contorni di inchiostro delle stampe dando all’immagine un aspetto di merletto e rovinando al tempo stesso la superficie della carta. Il comune tarlo si farà strada attraverso la carta per raggiungere il legno. I tisanotteri (bacillo del fieno) si insinuano con facilità all’interno delle cornici e una volta raggiunto, le loro secrezioni contribuiscono alla formazione di muffe. Queste compaiono sotto forma di macchie scure facilmente identificabili. La muffa è incoraggiata dall’umidità relativa elevata (oltre il 65%), dal diretto contatto della carta con il vetro della cornice e dalla cattiva ventilazione che si ha in un quadro appeso al muro.
Storia del vetro
Molte furono le formidabili scoperte della tecnica annunciate alla prima esposizione industriale inglese del 1756 per poi essere presentate alla fiera tedesca di Amburgo nel 1790 e destinate a segnare il boom della rivoluzione industriale, l’inarrestabile crescita economica del nord Europa, ma anche l’apparire, continua
sullo sfondo della facciata borghese, di una nuova classe sociale determinante per lo sviluppo: il proletariato urbano che prende consapevolezza di se con la rivoluzione francese del 1789. Londra cerca di mantenere sotto controllo l’enorme tensione sociale dapprima aprendo, nel 1751, il primo manicomio poi, nel 1778 il primo ospedale per bambini e infine, nel 1784, il primo istituto per ciechi. Ma le tristissime condizioni di vita del proletariato permarranno e saranno drammaticamente e mirabilmente descritte in seguito dal grande Charles Dickens (1812-1870). In Francia è paragonabile alla sua opera il grande romanzo di Victor Hugo (1802-1885) “I Miserabili” del 1862. Ma è Dickens il vero reporter di quei tempi difficili, tra lo sporco e la miseria che conosce di persona perché, a soli dodici anni, ha dovuto lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe per pagare dei debiti di famiglia prima di poter riprendere gli studi. L’industria tessile inglese domina agli inizi del ‘700, seguita da quella francese. A metà secolo la produzione di stoffe, soprattutto cotone, ha una forte impennata, ma non esiste ancora una procedura efficiente di sbiancatura. L’avevano trovata gli antichi Egizi, forse per la ricchezza di natron o di carbonato di sodio naturale o soda nei loro laghi asciutti ed erano diventati maestri nel fare colori ed altri speciali composti. Ma la loro formula è andata perduta nella notte dei tempi. Il problema viene risolto in qualche modo esponendo le pezze appena confezionate alla luce del sole e aspettando pazientemente che la natura faccia il suo corso. Non è difficile per i viaggiatori dell’epoca individuare i villaggi dediti alla tessitura in quanto intorno ad essi le chiazze chiare dei tessuti distesi si allargano a perdita d’occhio nel mezzo del verde della campagna. La sbiancatura ed il candeggio all’epoca rappresentano ancora un limite per lo sviluppo della produzione industriale, sicché la soluzione viene attivamente ricercata ricorrendo, proprio come gli antichi avevano già fatto, all’utilizzo dei mezzi chimici disponibili. In un primo tempo si fa uso dell’acido solforico diluito. Il suo utilizzo non è esente da problemi, ma almeno ha il vantaggio, apprezzato dai produttori, di accorciare di molto i tempi di candeggio e di far così conseguire un risparmio notevole. Comincia così la corsa alle scoperte chimiche. Una corsa inarrestabile alla scoperta di formule e composti nuovi per i quali è poi difficile attribuire una priorità. La inizia Joseph Priestley (1733-1804), teologo inglese, una vera intelligenza superiore da annoverarsi tra i maggiori chimici di tutti i tempi: scopre l’ossido di azoto, l’anidride solforosa, l’acido cloridrico (muriatico), l’ammoniaca e, nel 1775, l’ossigeno, che ottiene riscaldando l’ossido rosso di mercurio. Per i suoi studi sui gas usa una campana di vetro. A dire il vero era stato preceduto, per la scoperta dell’ossigeno, dal farmacista svedese Karl Wilhelm Scheele (1742-1786) che ebbe il torto di non aver reso pubblici i suoi risultati. Si accanisce inutilmente a dimostrare l’esistenza del “flogisto” o “principio di infiammabilità”, responsabile di tutti i processi di combustione. I suoi scritti riguardano “esperimenti e osservazioni sulle diverse specie d’aria”. Karl Scheele scopre anche i composti organici tra i quali l’acido tartarico, formico, benzoico, lattico e urico. Isola l’idrogeno, scopre che l’aria è composta di ossigeno e di azoto e trova un nuovo elemento chimico, il cloro, che però solo nel 1810 sarà riconosciuto come tale dall’inglese Sir Humphry Davy (1778-1829) che studiò pure l’azione fisiologica di alcuni gas, come quello esilarante (ossido di azoto). Grazie alla pila elettrica di Alessandro Volta, presentata nel 1800, il Davy diviene il padre dell’elettrochimica moderna e per mezzo di essa separa nel 1807, potassio, sodio, calcio, stronzio, bario e magnesio. Il merito dell’enorme sviluppo dell’industria francese del sapone e del vetro tocca a un altro chimico, personaggio geniale e generoso, Nicolas Leblanc (1742-1806). La sua vita va studiata con molto interesse perché egli realizza in sé, come personaggio e medico, una commistione tra intraprendenza industriale, funzione sociale dell’azienda, rapporto con la politica rivoluzionaria, alto senso di responsabilità. Vola talmente alto che il riconoscimento dei suoi meriti sarà, al solito, postumo e tardivo. Cosa mai ha inventato di così strepitoso il nostro chimico imprenditore e medico Leblanc? Una cosa semplicissima: come produrre la soda (carbonato di sodio), indispensabile per la fabbricazione del sapone e del vetro, ricavandola dal comune sale da cucina, con l’aggiunta di calcare, acido solforico e carbone. Un processo chimicamente non troppo semplice (siamo nel 1783) ma dal risultato eccezionale, anche economicamente. Nicolas Leblanc è chirurgo del duca d’Orléans, suo pubblico protettore (un nobile che cadrà giustiziato dai rivoluzionari) ma è, in privato, uno scienziato ricercatore, studioso della chimica degli elementi. Gli riesce quanto non era riuscito agli alchimisti suoi predecessori: ha successo nell’impresa impossibile, di trasformare in oro, si fa per dire, il…sale marino. Non tanto perché vinse nel 1792 il ricco premio in denaro messo in palio dall’Accademia delle Scienze di Parigi (premio mai riscosso a causa della condanna a morte del suo protettore), quanto perché il processo da lui inventato, tenuto gelosamente segreto agli inizi, permette di ricavare la soda dal sale marino cioè, per dirlo in un modo chimico, il carbonato di sodio dal cloruro di sodio. Questa è una delle più importanti scoperte del secolo destinata ad avviare uno sviluppo di utilizzo industriale che vale oro. La soda, il carbonato di sodio e gli altri derivati sono indispensabili all’industria del vetro e del sapone. Il contributo di Leblanc alla trasparenza del vetro è unico e inimitabile. La sua soda artificiale è subito disponibile davvero a buon mercato in confronto a quella ricavata dalle alghe e dalle altre piante marine. All’epoca, la Francia, per le sue manifatture, deve importare grandi quantità di quella cenere da soda dalla Spagna, produttrice rinomata, con costi notevoli per dazi e tempi di trasporto. L’applicazione innovativa del processo Leblanc cade proprio nei mesi infuocati della Rivoluzione francese con tutti i suoi eccessi e le sue conquiste. Il Governo della Rivoluzione chiede al cittadino Leblanc di svelare il prezioso segreto del processo brevettato nell’intento di socializzarne economicamente la conquista. Nicolas Leblanc che è medico e che ha fatto il giuramento di Ippocrate, accetta generosamente dato che, nel suo stabilimento di Saint Denis, struttura produttiva industriale che ha aperto per far fronte alla forte domanda, la produzione va alla grande e non riesce neppure a soddisfare tutte le richieste. Ma la cessione della formula di cui tutti possono ora profittare, genera in breve tempo una tale concorrenza, a prezzi talmente bassi, che Leblanc è costretto a chiudere Saint Denis e, sentendosi responsabile del fallimento e del disastro familiare, si suicida nel 1806.
A nord di Parigi, in Piccardia (l’attuale Alta Francia), nel dipartimento dell’Aisne, tra i villaggi di Chauny, Cirey e nei terreni vicini alla grande foresta di Saint-Gobain, nel 1665 ha avuto origine una società manifatturiera voluta da Re Sole Luigi XIV e dal suo ministro Jean-Baptiste Colbert. Nata per dare impulso allo sviluppo economico della Francia, la fabbrica passa dalla manifattura tessile tradizionale alla produzione del vetro grazie all’invenzione tecnologica decisiva della colatura del vetro “su tavola” del 1688. L’industria cresce e fa suo il nome della vicina foresta di Saint-Gobain, da cui trae le grandi quantità di legname necessarie per produrre la cenere da cui ricavare la soda. La “Manifacture Royale de Saint-Gobain” riesce a imporsi in condizioni di quasi monopolio, arrivando a soppiantare, alla fine del 1700, la tradizionale vetreria veneziana. Nel 1808, rivoluzionando la produzione proprio grazie al processo Leblanc, la Saint-Gobain fa un altro grande passo tecnico in avanti che la fa presto divenire la prima multinazionale europea. Nel 1857 apre la produzione in Germania, nel 1889 in Italia, nel 1904 in Spagna. Il gruppo Saint-Gobain conta oggi 200.000 dipendenti e opera in 64 paesi e detiene la leadership mondiale del vetro assieme all’inglese Pilkington, la quale si fregia di aver inventato nel 1898 il primo vetro di sicurezza incorporandovi un filo d’acciaio e nel 1959 ha lanciato un nuovo tipo di produzione del vetro oggi universalmente usato. Si tratta di un metodo rivoluzionario di fabbricazione a lastre piatte ottenuto facendo “galleggiare” un nastro continuo di vetro fuso su un bagno di stagno fuso (float glass process).
tratto da”Pulizia igienica e sanificazione, la sporca storia del pulito” di Giulio Guizzi. Edizioni LSWR
Agli albori del concetto di cornice
La cornice concettualmente risponde all’esigenza della nostra mente di stabilire un limite alla visione riprodotta per isolarla dalla realtà. Fino al XIII secolo le cornici erano parte integranti dei quadri, venivano ricavate dalla stessa tavola di legno continua
che facevano da supporto ai dipinti. Dell’intera tavola, la parte destinata ad essere dipinta veniva scavata e quindi risultava abbassata rispetto al bordo, in modo da lasciare un perimetro rialzato, utile al pittore come appoggio, per non rovinare il quadro durante l’atto del del dipingere, la stessa funzione della bacchetta poggiamano. Dal XIV secolo assume sembianze legate agli schemi architettonici: agli archi e alle ogive già presenti si aggiungono colonnine ritorte di sostegno, lesene e pilastri poggianti su predelle, a volte decorate con lo stesso tema sacro del dipinto. Le colonnine segnano la divisione tra le tavole dipinte.
È evidente che la nascita dello schema a trittico o polittico subisce l’influenza formale delle facciate o delle piante gotiche. Una sorta di rivoluzione avviene nel 1423 con l’
Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, che utilizza una cornice indipendente, anche se indivisibile dalla tavola. Pur avendo ancora le sembianze formali del trittico, l’
Adorazione dei Magi non subisce divisioni e la scena della processione si snoda liberamente nelle tre ipotetiche parti del dipinto. È a partire da questa conquista,
l’unità dello spazio pittorico con il lento e graduale decadere dello schema a polittico,
che si può far nascere l’idea di cornice “moderna”. Nel Quattrocento ha origine infatti la “tabula quadrata” e con essa il primo momento di reale autonomia sia tecnica che funzionale della cornice, nel senso che dipinto e cornice cessano di essere legate l’una all’altra. La cornice, tra l’altro, veniva progettata e realizzata prima del dipinto in quanto era lo spazio circostante a dettarne le dimensioni e le tavole o la tela che avrebbero accolto il dipinto venivano adattate successivamente.
Quale sarà la prossima Curiosità?